Un viaggio introspettivo per riscoprire luoghi e valori dimenticati, osservando la realtà con occhi più attenti. “L’uomo che cammina” di Leonardo Delogu va in scena a Perugia tra acropoli, periferia e campagna.
di Francesca Cecchini
“How this one goes
(walk with me, walk with me, come on and walk with me)
Old highs New lows”.
Scelgono le parole della band inglese degli Spector i registi Leonardo Delogu, Valerio Sirna ed Hélène Gautier per concludere il lungo viaggio de “L’uomo che cammina”, progetto itinerante in scena a Perugia fino al 23 giugno, promosso e prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria e Terni Festival (nell’ambito del quale ha debuttato durante l’edizione dello scorso anno). Ma siamo davvero certi che si tratti di una conclusione? E se, dopo quasi quattro ore di percorso condiviso (lo “spettacolo” è aperto a circa quindici persone), questo finale rappresentasse “solo” l’inizio di qualcosa ben più complesso?
La trama Tutto accade un pomeriggio, quasi casualmente. Un atrio angusto, un vecchio stabile, la porta si schiude e si chiude immediatamente alle spalle dello spettatore (partecipante anche se non interagente con il protagonista) catapultandolo in un ambiente ostico tra luci e ombre, pregno di incenso (invito alla riflessione e, forse, alla preghiera rivolta alla Madre Terra che rappresenta nascita e morte). “In una caverna si fa umanità, ma bisogna tornare di sopra”. E, se l’intento del regista è quello di ripercorrere e condividere una personale “Divina Commedia”, noi, come Dante, seguiamo la via ma scegliamo di interpretare “segni”, profumi e silenzi come qualcosa di più intimo. “Nessuno può ignorare il proprio tempo. Segui l’uomo”. A distanza, cercando di imitarne il passo (a momenti anche il pensiero), ci incamminiamo così verso quello che si rivelerà un viaggio alla riscoperta di tre regni: il centro (il nostro Inferno da spiare), la periferia (un Purgatorio dove ad espiare le proprie colpe non sono le anime ivi confinate, ma noi “stolti” cittadini di un mondo che ci siamo costruiti, rei dell’emarginazione del diverso in tutte le sue forme) e campagna (un Paradiso che arriva dopo aver transitato mondi vicini e lontani dal nostro, conosciuti ma mai guardati con attenzione). Qui, in un Eden tutt’altro che incontaminato, al contrario del Paradiso di Dante, dove nessuno desidera una condizione migliore di quella che ha (la carità non permette di anelare più di ciò che si possiede), l’uomo può infrangere le regole dei cieli concentrici e aspirare ad un mondo migliore di quello che ha davanti agli occhi. Un mondo “sporco” della sua arroganza.
Il teatro fuori “dalle mura” Non semplice spiegare un percorso che andrebbe vissuto in prima persona che vede il teatro uscire dalla sua scatola chiusa e scendere in strada. Una piena dimostrazione di come, rompendo gli schemi classici (almeno quegli schemi che vedono uno spettacolo essere tale solo su un palcoscenico munito di sipario) e divenendo parte integrante della città, quest’arte possa essere alla portata di chiunque. Angoli nascosti e strade inconsuete accolgono l’uomo che cammina e il suo seguito, confondendoli nei suoi colori e nella sua storia. Questo “uomo qualunque” (portatore della sua verità e della sua cultura) non cambia mai andatura e ci rimanda una doppia immagine contrastante permeata di serenità e solitudine. Là dove egli cammina, sfiora, si muove lasciandosi scivolare tutto addosso, in quello che è il suo habitat naturale che, con pregi e difetti, vive ed apprezza, ci sembra di cogliere (e condividere) una serenità che, nel nostro iter quotidiano, negli stessi luoghi, ci dimentichiamo troppo spesso di ricordare, superficialmente abituati a dare tutto per scontato. Là dove si ferma per una pausa e si appoggia pochi istanti ad un palo, una colonna, un muretto, come se, all’improvviso, sentisse tutto il peso del mondo sulla sua schiena curva e riparte a testa china, percepiamo una immensa solitudine fatta di mancanza, tristezza e, forse, dolore (in fin dei conti, a momenti, nell’arco della nostra vita, non ci sentiamo dolorosamente tutti soli in un mondo tanto ingombrante ed egoista?). Un doppio significato a noi è apparso ma, durante il progetto, lo spettatore è messo in condizione di prediligere un suo percorso interiore soggettivo. Noi abbiamo provato ad osservare ciò che ci circonda con gli occhi de “L’uomo che cammina”, emulare il suo passo e il suo silenzio. Ciò che ne è uscito, oltre un riaffiorare di ricordi, è stato un singolare diario di bordo influenzato (inevitabilmente) dal nostro vissuto personale. Così anche noi, come Delogu e il Sommo Vate, abbiamo potuto vivere, almeno per un giorno, la nostra “Divina Commedia”.