di Francesca Cecchini

Entrare in un mondo sconosciuto, studiarne e carpirne cultura, tradizioni, paesaggi fino ad arrivare all’attimo in cui un piccolo sorriso potrebbe essere la più grande vittoria per chi vive costantemente nella paura. Questo nell’esposizione del fotoreporter perugino in mostra in centro storico a Perugia

Sarà l’ex Chiesa di Santa Maria della Misericordia a Perugia ad ospitare, nel mese di settembre, in occasione della rassegna di eventi culturali estivi “destatelanotte”, “Popoli in lotta” la mostra del fotoreporter umbro Fabio Polese. Nelle immagini, il giornalista mostra scorci di vita quotidiana di chi, in veste di guerrigliero o di semplice civile, vive nei paesi “caldi” dove regna sovrano il conflitto politico-sociale. Gli scatti spaziano dal popolo Karen della Birmania all’Irlanda del Nord, dai campi dei profughi palestinesi in Libano alle manifestazioni che hanno portato all’ultimo colpo di Stato in Thailandia nel 2014. Una mostra sicuramente di impatto che parla di un mondo “parallelo” a noi noto ma di cui, generalmente, sentiamo solo parlare in televisione o leggiamo qualche notizia sui giornali. Ma come nasce la passione di questi reportage? Perché il desiderio di fare informazione in mondo tanto complicato e rischioso? Proviamo a chiederlo direttamente all’autore…

Come nasce la scelta tanto difficile, se ci concede il termine, di lavorare nel mondo di questi  popoli che si affannano in una lotta che sembra non finire mai? 

“Sono sempre stato affascinato dalla storia dei popoli e dalle loro tradizioni e culture. Ma leggerle nei libri o negli articoli di giornale, non mi bastava più. Sentivo il bisogno di andare a vedere con i miei occhi, di capire le motivazioni che li spingevano a lottare per quello in cui credono e dare loro un po’ di voce. Quella voce che sempre più spesso non si legge nei nostri media. Ho scoperto così un mondo completamente diverso dal nostro. Un mondo che non è fatto solo di sofferenza, ma anche di orgoglio e di storie umane di grandissimo coraggio. Un mondo quasi magico se paragonato alla modernità nella quale viviamo noi in Occidente”.

Un civile e un guerrigliero: due ruoli che (teoricamente) si oppongono. Nell’immaginario collettivo rappresentano il “buono” e il “cattivo”. Considerando ciò, come si riesce ad essere obiettivi nel cogliere lo sguardo dell’uno e dell’altro?

“L’immaginario collettivo non è sempre corretto. Il concetto di “buono” e “cattivo” è molto relativo. Ad esempio, è un “cattivo” chi difende il proprio popolo imbracciando le armi come risposta ai soprusi di una dittatura sanguinaria? E ancora, è un “cattivo” chi, cacciato dalla propria terra, sogna un immediato ritorno? In diverse parti del mondo, se non ci fossero quelli che qui ci piace chiamare “cattivi”, i “buoni” non potrebbero neanche sognare una vita normale”.

Quanto e cosa, considerandoli più oggettivamente entrambi vittime di un sistema, ha ritrovato in tutte e due le figure, mentre li osservava, pronto a carpire ciò che gli altri “non vedono”?

“In una guerra o, comunque in qualsiasi “lotta di popolo”, il civile e il guerrigliero, o il manifestante più radicale, sono dalla stessa parte. Si aiutano a vicenda e hanno bisogno l’uno dell’altro”.

Il coinvolgimento fisico può, immaginiamo, portare, a volte, ad un coinvolgimento emotivo. Come si riesce a non lasciarsi trasportare dagli eventi?

“E’ molto difficile riuscire a non farsi trasportare dagli eventi. Soprattutto quando sei testimone dei soprusi e dei segni indelebili di una guerra. Ma il mio ruolo è quello di raccontare ciò che guardo e trasmetterlo a chi vede i miei scatti. Credo che la fotografia riesca a parlare e a far comprendere le situazioni, molto meglio di mille parole”.

C’è stato un attimo in tutti questi anni durante cui ha provato paura? Paura di non tornare, di non riuscire a “venirne fuori” o di superare la soglia “accettabile” che un reporter di eventi del genere si pone per reggere psicologicamente?

“Tutti hanno paura, è inevitabile. Prima di partire per realizzare un reportage in un fronte caldo, è necessario organizzarsi bene. Studiare il Paese, avere buoni contatti e non partire all’avventura. Queste sono le precauzioni minime. Detto questo, il rischio c’è sempre. E lo sai bene. Ma sai anche che fa parte del “gioco”. Quello stesso “gioco” che riesce a farmi sentire vivo e fa superare gran parte delle mie paure interiori”.

Il rischio, in queste situazioni, giunge mai, secondo lei, ad oscurare la voglia di fare informazione?

“Nel mio caso non è mai successo. Ma questo è molto personale e dipende dalle proprie esperienze”.

Per chiudere, ci regalerebbe il momento in cui si è sentito vicino ad uno dei protagonisti delle sue fotografie? Per qualche somiglianza nel modo di vivere, per semplice fascino culturale o per pura empatia…

“In ogni luogo in cui vado mi sento vicino ai protagonisti dei miei scatti. Cerco di immedesimarmi in loro. Di capire ogni singola mossa, sguardo e comportamento. Ma sicuramente, per me, ogni viaggio che faccio in Birmania, dove vivono i Karen, che combattono la guerra più lunga al mondo, è speciale. Lì tutto diventa ancestrale. I giorni vengono scanditi solamente dalla luce e dal buio e anche le piccole cose quotidiane hanno un sapore diverso. L’atmosfera, la calma, il cielo che sembra possibile sfiorare con un dito e la fortissima indole di questo popolo, determinato alla lotta per la libertà, sono una speranza affinché anche da noi ci possa essere un ritorno alla visione più tradizionale della società. Non a caso, gran parte dei protagonisti dei miei scatti presenti alla mostra fotografica, sono i civili e i guerriglieri che vivono nella jungla della Birmania Orientale”.

“Popoli in lotta” rimarrà aperta al pubblico dal 4 (inaugurazione ore 18) al 18 settembre. Orari: dal lunedì al sabato dalle ore 15.30 alle ore 19.30. Ingresso libero.