Il rogo dello stabilimento Thyssen a Torino e il dramma dei lavoratori delle Acciaierie nella messinscena di Carolina Balucani. Una performance qualitativamente, drammaturgicamente e umanamente degna di nota per un coro di voci in grado di trasportare il pubblico in una dimensione surreale tra allucinazione  e disperazione.

di Francesca Cecchini

Un inferno. Tutto inizia nel 1994 quando la Thyssenkrupp acquista la Ast di Terni di cui fa parte anche un impianto torinese. Nello stabilimento piemontese, nel 2007, scoppia l’incendio, purtroppo ben noto, che provoca la morte di 7 operai. Inutile l’uso degli estintori a breve gittata, inutile l’utilizzo di una manichetta da cui non fuoriesce acqua (insieme alla decisione di dismettere lo stabile, non ci sono più investimenti in materia di sicurezza), inutile tentare di fuggire. Un processo lungo e doloroso durante cui, per la prima volta in Italia, si parla di “responsabilità a titolo di omicidio volontario” riferendosi al datore di lavoro. A luglio del 2014 il nuovo piano industriale annunciato da Thyssen provoca 36 giorni di sciopero e proteste che terminano con un accordo tra governo, lavoratori e sindacati: i due forni resteranno accesi, ci sarà un milione di tonnellate di produzione e non si provvederà ad alcun licenziamento ma il personale sarà ridotto di 290 unità grazie al bonus di 80.000 euro lordi offerti dalla fabbrica in cambio di esubero volontario.

Lo spettacolo Il “coro di voci disperate” di questi 290 operai  è portato in scena da Carolina Balucani, regia di Marco Plini, al Ridotto del Morlacchi di Perugia, nell’ambito della Stagione del Teatro Stabile dell’Umbria, in modo insolito, offrendo cioè al pubblico la condizione psicologia (nuda e cruda) provocata da questa frattura in cui gli operai  si sono ritrovati dopo aver accettato gli 80.000 euro. Firmando l’accordo hanno infatti sì aiutato il raggiungimento dell’accordo ma, oltre ad aver perso il lavoro ed aver, dunque, smarrito la sostanza della propria vita, sono stati al contempo abbandonati dal datore di lavoro (“Un giorno è venuto da me e mi ha chiesto di andarmene. Vorrei che tu mi lasciassi”). Cade, si rialza, scivola, si rialza, torna di nuovo a terra e si rialza. L’acqua (siamo in una piscina) la accoglie, la abbraccia, la sostiene, seppur non costantemente,  nella caparbia lotta contro se stessa  (la Balucani è l’operaia che ha accettato il bonus), contro un interlocutore immaginario ma paradossalmente reale (la fabbrica), contro il mondo intero reo di non comprendere il suo stato d’animo. Piccole anatre le fanno compagnia in questo impianto scenico che si muove tra giochi di acqua e di luce, rappresentando chi, come lei, è praticamente “costretto” in uno stato di vacanza forzata. Intorno alla protagonista a chiudere il quadro sono una serie di pannelli che si riflettono nell’acqua rimandando ad un immaginario ambiente sterile ed anonimo. Forse una scelta per ricordare l’ambiente lavorativo dove il tempo è scandito da una routine grigia e tutto appare tanto familiare da essere scontato e, per certi versi, poco stimolante (una routine che, però, persa, torna a galla come un ricordo prezioso e martellante).

L’escamotage della fiaba  Ad accompagnare l’operaia in questo percorso sono Hansel e Gretel. I due personaggi di Grimm sono anch’essi in vacanza e smarriti perché la strega ha chiuso un forno. Ora, non sapendo cosa fare, guidati dal guardiano della piscina, si immergono in una trasposizione dei fatti dialogando e confrontandosi nella distesa d’acqua fino ad arrivare ad una crisi emotiva provocata dal “gioco dell’incendio” che li riporta al momento esatto in cui l’onda anomala del fuoco investì gli operai.  Il dolore causato dalla perdita delle sette vite è di forte impatto in scena e, per quanto descritto in chiave fiabesca, riesce a far ben riecheggiare sul palco una sofferenza estrema portata non solo dalle voci delle vittime, ma da quella dei compagni che hanno assistito impotenti al rogo e delle madri cui (dopo) non è rimasto altro dei figli che una tomba su cui posare un fiore di tanto in tanto. Un coinvolgimento emotivo in cui il pubblico non può non rimanere coinvolto e che non può non portare con sé una riflessione importante all’uscita del teatro. “Mi si nota solo se perdo la vita” dice uno dei ragazzi della favola di Grimm perso nella distesa d’acqua. Duecentonovanta anatre operaie piene di soldi (fino a quando?) che non riescono a superare la giornata senza dannarsi anima e cuore perché abbandonate a se stesse. Sette operai morti perché le misure di sicurezza di un grande stabilimento sono state “violate”. Un’attrice che va oltre i fatti di cronaca e ci insegna che i numeri (tanto sottolineati nello spettacolo che arrivano al clou nel conteggio esasperato di Gretel) si confondono e perdono di importanza davanti a delle vite per cui difficilmente si potrà trovare pace e serenità.