di Francesca Cecchini
“Nel bene e nel male, in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia”. In scena a Magione sabato 2 aprile arriva ‘L’Amantide. Love Macht Frei’. Siamo proprio sicuri che l’amore renda liberi e che il matrimonio sia il punto di partenza emozionale che porta la coppia alla tanto sospirata felicità?
Vincitore del Premio della Critica al Festival – Direction Under 30 – 2015 per “la sensibilità estetica che permea il loro intero lavoro, donandogli coerenza e precisione. L’accurata attualizzazione di un testo non banale e provocatorio risulta con efficacia in una drammaturgia fresca che merita un’adeguata vetrina nell’ottica di futuri sviluppi” arriva sul palco del Teatro Mengoni di Magione, nell’ambito della Stagione curata dal Teatro Stabile dell’Umbria, sabato 2 aprile (ore 21), ‘L’Amantide. Love Macht Frei’, liberamente tratto da ‘La moglie a cavallo’ di Goffredo Parise, diretto da Daniele Menghini, anche interprete con Giodo Agrusta, Cristina Daniele e Ludovico Röhl della Compagnia Malabranca Teatro. Nella pièce, un uomo, Glauco, e una donna, Romana, il loro rapporto e il (catastrofico) cambiamento che si sviluppa dopo il fatidico ‘sì’. La dolce novella sposa, infatti, si rivelerà nella sua vera natura ed inizierà a far richieste sempre più sconcertanti al coniuge rendendolo ‘schiavo’ di un gioco in bilico tra il capriccio e il senso di possesso dell’amata. Per meglio entrare nell’ottica di questo viaggio psicologico all’interno del rapporto familiare vissuto nell’intimo della propria ‘casa’ dai due protagonisti, abbiamo incontrato il regista per farci guidare nella rivisitazione dell’atto unico dello scrittore vicentino.
Il matrimonio dovrebbe rappresentare, teoricamente, il giorno in cui si corona il sogno del consolidamento dell’amore tra due persone. In questo caso diventa, invece, l’inizio di un incubo per uno di loro. Qual è il meccanismo che scatta nella protagonista e che fa emergere una natura tanto sconcertante che persino il marito stenta a riconoscerla?
Pensiamo per un attimo di essere in un mondo parallelo in cui saper amare significa saper cavalcare, una dimensione assurda dove per essere una buona moglie occorre diventare un’esperta cavallerizza ed un buon marito è tale solo se ha spalle abbastanza forti da sostenere il peso della donna che ha sposato. Una realtà che fonda il rapporto di coppia sul binomio naturale e inscindibile ‘cavallo/fantina’. Tutti lo sanno. Funziona così. Ci si incontra, ci si innamora, si arriva all’altare e alla fine si cavalca. E tanto più si ama, tanto più si cavalca. Tutti lo sanno tranne Glauco, il protagonista della nostra assurda storia. Romana non è pazza, non è una tiranna dispotica, è una donna che vuole semplicemente amare ed essere amata dall’uomo che ha sposato. Un uomo che la ama ma che non capisce questa smania, questo bisogno irrefrenabile di montare a cavallo. Due persone che si scelgono, si amano, ma vogliono cose diverse l’uno dall’altra. Parlano due lingue diverse. L’incubo non è solo del povero Glauco che si ritrova accanto una moglie che vuole inspiegabilmente cavalcarlo, ma è anche quello di una donna che tenta con tutte le forze di amare un uomo che non capisce, non sa cosa significhi essere in due. Una metafora grottesca, quasi da letteratura dell’assurdo, quella adottata da Parise per portare alla luce un tema universale come l’incomunicabilità, fulcro drammaturgico su cui ho voluto fondare l’intero piano di regia.
Questo sentirsi più ‘sicura’, dopo aver contratto il vincolo matrimoniale, e gli atti di prevaricazione che Romana compie, sono la dimostrazione dell’esasperazione della donna che fuoriesce là dove ancora, ai nostri giorni, la sua emancipazione non è pienamente riconosciuta dalla società in cui viviamo?
Romana non arriva a cavalcare il marito per emanciparsi, per schiacciarlo, in questa lettura del testo di Parise non c’è guerra di sessi, non esiste un sesso debole e un sesso forte, non ci sono rivalse e scontri di genere. Capiamo che siamo in un mondo in cui le mogli cavalcano naturalmente i mariti da una battuta della vicina del piano di sopra che irrompe nel bel mezzo di una accesa discussione tra i due sposi: “La finisca, si faccia cavalcare e basta!”. Ecco che amare e farsi cavalcare diventano la stessa cosa. Un uomo che si ribella alle briglie è un po’ come un uomo che si toglie la fede e si sottrae ai doveri coniugali. Non abbiamo solo un marito e una moglie, abbiamo due persone che subito dopo essersi scambiate gli anelli, pieni d’amore e speranza, cominciano progressivamente a non riconoscersi più. Ma potevano essere pure moglie e moglie, marito e marito, per quanto mi riguarda. Non mi interessano battaglie sessiste.
La sedia di Romana troneggia evidentemente su quella di Glauco. Il tavolo collocato al centro del palco, in bilico verso il basso, è realmente un elemento di discesa o, contrariamente a ciò che sembra, di ascesa? Ed eventualmente di chi o in rappresentanza di cosa?
Subito dopo aver finito di leggere il testo ho avuto l’esigenza di prendere un matita e abbozzare una prima idea di scenografia. Pensando al nido d’amore dei due sposi ho immediatamente visualizzato due sedie e un tavolo, tipici elementi del focolare domestico, ma considerando la deriva assurda che prende la storia ho avvertito il bisogno di analizzare la vicenda attraverso il filtro di uno sguardo allucinato. È così che è arrivata l’idea di deformare completamente le prospettive dei tre elementi, arrivando alla progettazione di due sedie, una sproporzionatamente alta, l’altra decisamente troppo bassa e tra le due un tavolo inclinato a far da ponte. Questa alterazione prospettica diventa metafora dello squilibrio di una coppia che si rincorre senza mai trovarsi, di una marito e una moglie che scalano instancabilmente questi impervi mobili, facendone palcoscenico del proprio amore impossibile.
Analizziamo il titolo. ‘L’Amantide’ ci riporta alla mantodea e al cannibalismo del rito post-nuziale che vede la femmina divorare il maschio durante l’accoppiamento o all’omonimo film di Amasi Damiani in cui i protagonisti vivono psicologicamente sotto l’influsso di una matriarca imponente ed invadente?
Nel titolo L’amantide convivono fondamentalmente due riferimenti: innegabile è quello alla femmina dell’insetto la cui spietata pratica d’accoppiamento a tutti nota risponde ad una legge di natura, ad un istinto necessario; l’altro a Romana, moglie che ama e per sua natura non conosce altro modo di amare.
‘Love macht frei’ (l’amore rende liberi) apre le porte all’ironia che, immaginiamo, sia un elemento portante del lavoro drammaturgico fatto da Giodo Agrusta?
Già da una prima fase del lavoro abbiamo avvertito l’esigenza di approfondire alcuni aspetti di quella natura della protagonista che Parise presenta senza particolari spiegazioni. La penna di Giodo Agrusta ha dato vita ad un diario della Romana bambina che ci racconta le fasi della sua formazione di donna e futura moglie. Una serie di ricordi che in un certo senso tendono a dar forma a quel nido/lager al cui ingresso potrebbe beffardamente campeggiare quasi fosse uno specchio per allodole il motto ‘Love macht frei’.
Facendo un parallelo con l’epoca in cui visse Parise (1929-1986), alla cui opera vi siete ispirati, quanto, secondo lei, è realmente cambiato il ruolo della donna all’interno del ménage familiare?
Non credo che siano i ruoli a cambiare, magari cambiano le famiglie perché cambiano i tempi. Eserciti di donne, mamme e mogli hanno tenuto, tengono e terranno in piedi famiglie, ma non parlerei di ruoli. Nel Sessanta il divorzio era un miraggio, oggi è una prassi. Fortunatamente i tempi cambiano al di là dei ruoli degli uomini e delle donne.
La consapevolezza di scoprirsi donna ha oscurato il ‘dovere’ di sentirsi madre o, quantomeno, moglie?
Penso che prima della moglie, della madre e persino della donna, ci sia la persona, con le proprie inclinazioni, la propria natura. La categoria spesso è una prigione. Così come il ‘dovere’. Bastasse il ‘piacere’ saremmo tutti più liberi. Forse.
Per concludere, ci tolga una curiosità… in scena Romana è interpretata da due attori. Come mai questa scelta?
Parise apre una scena con una didascalia ben precisa: ‘appare Romana irriconoscibile’ parla di capelli sconvolti, vesti stracciate e pantofole ai piedi. Volevo un segno scenico forte e allo stesso tempo chiaro per sottolineare questa trasfigurazione, così ho cambiato attore.