“Come fanno gli uomini ad essere tutti uguali se non tutti nascono e crescono con le stesse possibilità?”. Sette detenuti del Carcere di Capanne partecipano al laboratorio teatrale curato da Vittoria Chiacchella e Francesco ‘Bolo’ Rossini e si aprono ad un pubblico di giornalisti creando un punto di unione tra esperienze di vita, sentimenti e paure per abbattere i pregiudizi

di Francesca Cecchini

La storia dell’innocenza che nasce, cresce e si plasma in base ai fattori che condizionano la vita del bambino. Un bambino che matura e diventa uomo specchiandosi nella sua realtà quotidiana. In un ambiente che non offre opportunità di scelta economica e sociale, a volte, c’è il rischio che questa innocenza di base sia ‘traviata’ e comporti errori (forse ingenui ma fatali), incapacità di reagire e un (deleterio) lasciarsi trasportare degli eventi. Fattori che influiscono sul comportamento e che, anche a seconda della propria forza caratteriale, possono generare scelte che faranno, volente o nolente, del bambino in questione, purtroppo, un adulto problematico. Questo il percorso portato in scena mercoledì 11 gennaio al Carcere di Capanne a Perugia dove sette detenuti della casa circondariale penale maschile hanno presentato Il celeste sospeso, finale del laboratorio teatrale curato da Vittoria Chiacchera e Francesco ‘Bolo’ Rossini della Compagnia dei Giovani del Teatro Stabile dell’Umbria. Il laboratorio, cui hanno aderito Luigi Minichini, Domenico D’Andrea, Vasilev Veselin, Mohamed Slim, Samir Nasaibi, Abdellaziz Shban,Visar Didja, rimanda al pubblico un punto di espressione intimo dei ragazzi in questione che si aprono a terzi componendo un quadro scenico composto sia da esperienze personali vissute prima della reclusione che maturate durante la detenzione. Ci spiega Vittoria Chiacchella: “Il progetto è durato circa un anno. In questo periodo abbiamo affrontato insieme temi e storie vicino ai ragazzi e lavorato alla scrittura scenica. La prima grande sfida è stata quella di imparare le parole perché il gruppo è formato per la maggior parte da persone provenienti da paesi stranieri. L’obiettivo iniziale è stato quello di portare libertà di espressione e di condivisione in questo luogo, che è un luogo costrittivo, e nel paese in cui viviamo”.

La messinscena Durante la messinscena, Innocenza (figura chiave della piéce) vive in una società che non le offre opportunità e, contaminata dall’ambiente esterno, si lascia coinvolgere, suo malgrado, in un ‘misfatto’ che comporterà una strenua e difficoltosa ricerca della Giustizia (“Cercavo giustizia ma non la trovavo perché si era nascosta”). Una giustizia collocata all’interno di un turbine di incomprensibile e complicata burocrazia. Il vortice di sentimenti scaturiti dagli errori compiuti permeano la scena e tangibile è la paura – durante il percorso – di non essere creduti, che gli uomini non siano realmente tutti uguali davanti alla legge e di ‘rimanere intrappolati’ in un luogo claustrofobico come il carcere (“Ha perso la sua libertà. O forse non l’ha mai avuta”.). L’escamotage usato per arrivare al punto di rottura che provoca la comprensione della gravità dell’errore compiuto è un incidente stradale causato da Innocenza involontariamente. Qui la scena si indebolisce – ricordiamo che questo è un laboratorio e non una performance di attori professionisti –. Spazio è dato al dolore dei protagonisti (i futuri detenuti) ma, causa il poco tempo a disposizione, come ci spiega Rossini, il punto di vista delle vittime non è reso in scena, ma verrà presto sviluppato man mano che il lavoro proseguirà. Il regno burocratico è governato dallo Stato. Uno Stato che promette, promette, ma non fa un passo in avanti, rimanendo statico e indifferente davanti alle condizioni in cui vivono i detenuti nelle carceri. Un pensiero, ci sembra, forse troppo critico ma che viene ben rappresentato ed enfatizzato da uno degli ‘attori’ comodamente seduto in poltrona, servito e riverito dal suo entourage. Raggiunto lo scopo, sembrerebbe recitare lo spettacolo, il politico si crogiola nel suo ‘potere’, dimenticando le promesse fatte durante la sua scesa.

Non per forza condivisibile questo concetto di Stato che non è solo luogo di politica ma che è composto anche da ogni singolo cittadino che lo abita. “Lo Stato siamo noi” asserisce la Direttrice del carcere Bernardina De Mario che spiega come sia necessario “puntare sulla conoscenza per superare le barriere culturali, religiose, sociali. Ci vuole accoglienza, sempre nel rispetto delle regole. Se noi cominciamo per primi, facciamo il primo passo, altri ci seguiranno”.

La speranza, ci spiega la direttrice, è quella di poter aprire alla città lo spettacolo già, forse, il prossimo mese di febbraio. Un modo, forse, per avvicinare il cittadino a quelle mura (che solo guardarle, lastricate di cemento e gelo, fanno tremare e chiudere lo sguardo) dietro cui esiste una realtà che può apparire tanto lontana dal nostro quotidiano, ma che, al contrario, è parte integrante della nostra vita, del nostro paese. Una casa (circondariale) accanto alla nostra in cui vivono esseri umani che, dopo aver sbagliato, cercano di ritrovare se stessi – grazie anche ad interventi esterni come questo del laboratorio teatrale – e di aprirsi agli altri alla ricerca di una possibilità che, probabilmente, in alcuni casi, non hanno mai avuto.

“Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora”. (Albert Camus)