IL CALCIO PER IL TECNICO PERUGINO NON E’ SOLO UNA PASSIONE, MA UN PUNTO FERMO CHE HA ACCOMPAGNATO TUTTA LA SUA VITA SIN DALL’INFANZIA

di Pier Paolo Vicarelli

“Ho avuto la fortuna di nascere nei tempi in cui la gente di domenica si ritrovava a vedere la partita di calcio”. Serse Cosmi si presenta così, sfogliando la nostra rivista con la curiosità di un bambino e la saggezza di un uomo, portando nella nostra redazione una ventata di ricordi. Verdeggianti e veraci come il suo animo sportivo. Come la sua terra. Gli chiediamo il perché di questo nome epico. “E’ stato mio padre Antonio a volere questo nome, in onore di Serse Coppi, fratello prematuramente scomparso del grande Fausto. Quando avevo quattordici anni mio padre se ne andò, lasciandomi in eredità il coraggio della sincerità e la schiettezza di riuscire a parlare in faccia alla gente”. La sua voce baritonale dipinge la sua infanzia trascorsa a Ponte San Giovanni, uno dei tanti paesi dei “ponti” dove il gioco del pallone era motivo di aggregazione sociale, dove le persone imparavano a conoscersi di più, scoprendo senza remore, ciascuno il proprio carattere dinanzi ad un gol mancato o ad un fallo mai dato. “Ogni tanto, quando ripercorro quella che una volta si chiamava via Pontevecchio, dove sono nato, ricerco con lo sguardo i profili delle case di pietra, il cancello del vicino che mi sembrava tanto grande. Se chiudo gli occhi riappare nella mia mente di bambino il campo sportivo della Pontevecchio, pieno di gente accesa di voci e colori. E poi il ticchettio delle scarpette, le incitazioni un po’ ruspanti dell’allenatore e l’odore canforato degli spogliatoi. Mi sembrava un grande teatro dove ogni volta lo spettacolo era diverso ed imprevedibile. Sembrerà strano ma a quarant’anni la stessa impressione l’ho vissuta quando sono entrato da allenatore nel tempio di San Siro o all’Olimpico”. D’improvviso la sua posizione cambia aspetto, la seggiola della nostra redazione diventa quasi una panchina, il suoi occhi appaiono ancora più azzurri, il suo cappello a coppola gli dona l’assetto da “mister”. Il suo timbro di voce vira verso l’alto. “Allora c’era soprattutto la passione, i calciatori nella vita di tutti i giorni erano muratori, elettricisti, facevano i turni in fabbrica, oggi fanno solo i calciatori; certo la componente economica è rimasta sempre un motivo dominante, ma i dirigenti delle società sportive di oggi assomigliano più ad impresari e la domenica gli spalti non sono più gremiti come una volta”. Il salto di qualità nella ribalta nazionale avviene nel 1995 quando dalla panchina dilettante della Pontevecchio, Cosmi viene chiamato ad allenare l’Arezzo in serie C. “Mia moglie Rosy mi disse: Ti odieranno come odiano tutti i perugini. A quei tempi se ti presentavi con un auto targata PG erano assalti e cocci rotti. Proprio in quel periodo ebbi un incidente con la mia Opel Kadette, girandomi tondo come una trottola sopra una pozzanghera. Dell’auto rimase intatto soltanto il cofano, così chiesi in prestito la Uno bianca a mia sorella, che ci teneva a mostrare un Grifetto tutto rosso vicino alla targa PG. Ogni volta che andavo ad Arezzo dovevo ricordarmi di staccare quel Grifetto rosso, altrimenti rischiavo grosso, anche con mia sorella!” Eppure, come ricorda Federico Sciurpa nel suo libro appena pubblicato: “20 pezzi da 100”, Cosmi con le sue doti tecniche, il suo intuito, la sua schiettezza professionale ed umana a saputo guadagnare la fiducia degli aretini, riuscendo come nessuno prima ad avvicinare Arezzo a Perugia. “Quando nel 2000 mi congedai dall’Arezzo per rispondere alla chiamata di Luciano Gaucci che mi avrebbe portato in serie A, gli aretini capirono l’importanza di quella chiamata. La conferma avvenne in occasione dell’incontro con il Perugia di Carletto Mazzone. A sorpresa i tifosi della curva srotolarono un grande striscione dove c’era scritto: a Perugia c’è il grande calcio, ad Arezzo un grande perugino”. Dopo Valdinoci e Guidolin, Cosmi è stato il terzo allenatore nella storia del calcio italiano che dalla serie C è passato alla serie A. Poi è seguita una transumanza un po’ incontrollata e poco gloriosa. C’è una non verità che a Cosmi piace sottolineare. Il calcio è soprattutto spettacolo ed il personaggio tutto urla e berrettino è stato veicolato dai media proprio perché faceva spettacolo. Ma dietro questa etichetta c’è il vero Cosmi allenatore, che conosce il mestiere, sa trasmettere agonismo ai giocatori, non teme le ingiustizie arbitrali e soprattutto sa metterci la faccia. “Nel nostro mestiere è molto importante saper comunicare, ma allo stesso tempo ho sempre ascoltato i giocatori, i dirigenti, i tifosi e persino il mio barbiere. Nel 2004, ascoltando il suggerimento di Marco Materazzi decidemmo di adottare il modulo 3-5-2 contro la Lazio. Perdemmo l’incontro, ma fu una partita strepitosa e la domenica successiva vincemmo 3-1 con il Parma. Da lì in poi ci fu un vero e proprio decollo. I migliori risultati li ho ottenuti sempre quando ho osato essere un po’ incosciente. Ho sempre dubitato di quelli che vincono sempre. La sconfitta è una scuola di vita, da gestire e riconquistare”. Indimenticabile per il Perugia di Cosmi è stata la vittoria a San Siro contro il Milan. “Entrai in quello stadio quasi da sconosciuto, fu una “prima” di grande clamore. Dopo il 2-1 in nostro favore lo stadio si era quasi svuotato, tutte le luci di San Siro erano su di noi e sui 500 perugini in delirio. A nostro favore ci fu anche la risonanza mediatica durante la pausa delle festività natalizie. Ci sentivamo dei piccoli giganti. A me, uomo venuto dal fiume, sembrava di volare!”

(foto di Oreste testa)