di Francesca Cecchini
La vicenda delle tre donne segregate e stuprate per undici anni portata sul palco di un teatro. Due attori per un dramma che ha sconvolto il mondo intero.
Amanda Berry, Michelle Knight e Gena DeJesus, tre giovani donne rapite e tenute segregate in una cantina. Ariel Castro, il carnefice, il “mostro di Cleveland”. Undici anni di schiavitù, torture, privazioni e orrori. Violentate ogni giorno (fisicamente e nell’animo) vengono ripetutamente picchiate per far perdere loro il frutto degli stupri. Solo una, Amanda, riesce a partorire. Così, nasce Jocelyn, che, in questo ambiente terrificante, trova la sua “casa”. Un giorno Castro commette l’errore di non chiudere a chiave la porta e Amanda, presa con sé la figlia, riesce a scardinare un pezzo di quella porta che è la sua unica via di fuga. Tanto forti le sue urla che i vicini, ignari fino ad allora dell’abominio che si perpetra a pochi metri da loro, accorrono e riescono a soccorrerle. Le tre donne escono dal “lager” e Ariel Castro viene arrestato insieme ai suoi due fratelli, Pedro e Onil, accusati di complicità in rapimento. Durante il processo, il mostro di Cleveland, dopo essersi dichiarato colpevole, si suicida nella sua cella. Questa la vicenda nota ai media. A riproporla e a metterla in scena, con Briciole, venerdì 29 gennaio (ore 21.15), al Teatro Subasio di Spello, per la Stagione curata da Fontemaggiore, una giovane compagnia folignate, la TILT/Compagnia SMG, nata nel 2013 da artisti umbri, siciliani e molisani che si conoscono a Foligno in occasione di alcuni laboratori teatrali. “Ognuno di noi – ci spiega il regista Alessandro Sesti – ha una formazione differente. Accademica qualcuno, totalmente “anti-accademica” altri. Una notte io e Andrea (il molisano), confrontandoci, decidemmo di provare a trasformare i nostri pensieri in lavori teatrali. Avevamo le nostre esigenze e il bisogno di “raccontare” era forte. Ci siamo fatti coraggio e abbiamo dato vita a TILT”.
Questa è la vostra prima messinscena?
No, precedentemente abbiamo lavorato a Déjà Vu uno spettacolo che definirei “una palestra”. Proprio come in una palestra, infatti, ci siamo allenati, sperimentando qualunque cosa ci venisse in mente. Una sorta di “calderone” immenso e confuso ma fondamentale per il proseguo del nostro lavoro. Poi alcuni lavori di teatro ragazzi, fino ad approdare a Briciole.
Come siete entrati a far parte della Stagione Fontemaggiore?
Presentammo lo studio su questo primo lavoro lo scorso mese di maggio durante “Strabismi Festival 2015” ma, essendo forse una compagnia giovane e agli esordi, non ricevemmo particolare attenzione dagli operatori del territorio. Così organizzammo una prova aperta a luglio. Venne ad assistere Stefano Cipiciani (NdR. Presidente Fontemaggiore Centro di Produzione Teatrale) che apprezzò lo spettacolo e ci propose di far parte della stagione.
Il gioco di parole del titolo ci incuriosisce…
Nello spettacolo sono disseminate delle briciole proprio come quelle che, quotidianamente, calpestiamo e scansiamo. Rappresentano i “segnali” che non riusciamo a vedere.
Come nasce l’idea di cimentarsi in un argomento tanto delicato e complicato?
Credo che solo il calcio e pochi altri argomenti non siano “delicati e complicati”. Un giorno, leggendo il giornale, mi capitò di leggere la storia di Ariel Castro. Un uomo che rapì e segregò nella propria casa tre donne per undici anni. Ebbi una sensazione chiara. Nella società di oggi siamo abituati a commentare una mostruosità del genere con freddezza e distacco. La stessa freddezza e, aggiungerei, cecità, con cui i vicini di Castro non si accorsero per tanti anni dei movimenti sospetti e delle grida provenienti dalla casa. Questo forse perché lì, a Cleveland Ohio, come in tutto il resto del mondo, ci si occupa ogni giorno del proprio “orticello” senza guardare oltre il proprio naso. Il mio intento, comunque, non è quello di dare risposte sull’accaduto, ma parlare dell’ennesima terribile violenza sulle donne e, nel mio piccolo, far conoscere al mondo di quale orrore un uomo può esser capace.
Qual è l’aspetto che l’ha colpita maggiormente di questa vicenda?
Dopo aver letto la notizia, decisi di approfondire. E l’idea, la scintilla che mi portò a lavorarci fu la lettura di uno stralcio del processo. Il giudice pronunciò queste parole: “Signor Castro, lei sa che non uscirà da qui?”. Ariel Castro rispose solo: “Speriamo che tutto questo finisca presto. Non vedo l’ora di tornare nella nostra casa, eravamo una famiglia felice, lì regnava l’armonia”. C’era una calma disumana in quell’uomo. Non era affatto cosciente di ciò che aveva fatto. Nel suo mondo distorto aveva compiuto un atto d’amore. Questo vorrei riportare al pubblico. Il suo punto di vista. Mostrarlo come lui credeva di essere: innocente ed amorevole.
In scena la visione di tre dei protagonisti e due attori…
Abbiamo tre personaggi: Ariel il “mostro”, Amanda Berry la donna segregata (a rappresentare le tre recluse) e Jocelyn, sua figlia, unica bambina nata tra le tante gravidanze interrotte. Il lavoro è diviso in tre blocchi. Ascoltiamo i ricordi di ogni personaggio della storia e poi li osserviamo dal punto di vista dello stesso. Amanda e Jocelyn sono entrambe interpretate da Erica Morici. Andrea Giansiracusa per Ariel Castro.
Il mondo esterno si muove mentre nel sottoscala il tempo si ferma per tanti anni. E’ possibile abituarsi a tanta stasi fisica ed emotiva?
Mi fa piacere che cogli questo particolare. Il tempo. E’ tutta lì la questione. Amanda parla proprio di questo. Di come il tempo scorre e di quanto siamo abituati a darlo per scontato. Ci basti pensare che YouTube è nato nel 2005… a noi sembra esista da sempre. Ecco. Immagina di vivere in un inferno per dieci anni per poi scoprire che il mondo è andato avanti senza di te. Cosa può provocare più dolore? La stasi è fisica non emotiva. Il corpo è lì, in catene, ma le emozioni non sono controllabili, sono varie ed instabili. Non credo, dunque, sia possibile abituarsi. Ed una piccola conferma arriva dal fatto che questa donna ha tentato la fuga ogni volta che ne ha visto la possibilità.
Ci parli della scenografia e di come andrete a ricreare il clima di silenzio ed oppressione della “casa degli orrori”…
La scenografia è l’interno di una casa spoglia. Un tavolo, un letto con una grande spalliera fatta di legno e stoffa e la cuccia di un cane. Una trasposizione di quella che potrebbe essere la casa di ognuno di noi. Per ricreare il silenzio abbiamo semplicemente usato il suo opposto: la musica.
Nonostante la segregazione, le violenze e le torture, Michelle Knight ha perdonato il suo carnefice ed ha affermato di non odiarlo. Secondo lei, che, per certi versi, ha rivissuto e conosciuto da vicino il dramma, è possibile perdonare dopo un incubo di tale portata?
E’ qualcosa di incredibile anche per me. Studiando a fondo la vicenda e ciò che accadeva quotidianamente in quella casa non capisco come sia possibile. Eppure quelle parole sono uscite dalle labbra di Michelle Knight. Immagino che se la natura umana è capace di creare un male così grande, allo stesso modo, probabilmente, per bilanciare, esistano persone in grado di generare “un bene” tanto intenso.
In Briciole riusciremo a cogliere, se esiste, il lato umano di un uomo che arriverà poi al suicidio?
Assolutamente si. Per questo è nato il mio studio della vicenda. Volevo mostrare al pubblico il lato umano del mostro. Porre l’attenzione solo su ciò che lui credeva di essere. La descrizione del carnefice è materiale da “cronaca nera” e non teatrale. Nomini il suo suicidio… E’ stato mostruoso e misterioso anche quello. Sembra non ci siano corrette documentazioni del cambio della guardia in quella cella d’isolamento. Risulta che sia stato ritrovato nudo, impiccato con delle lenzuola mentre si stava masturbando.
Questo suicidio, secondo lei, è sintomo di pentimento o di egoismo perché Castro non poteva sopportare di non vivere nella sua “malata” libertà?
Credo che non ci sia molto da discutere riguardo al suo suicidio. Pentimento, egoismo, erotomania o terrore della reclusione eterna, non so. Non riesco a dare una risposta. Forse non c’è . Forse la conoscono solo quelle due guardie. Io, dal mio canto, cerco di tradurre questa incertezza. In teatro nascono le domande. Le risposte non spetta a noi darle. Noi raccontiamo una storia. Sta a voi ragionare sull’accaduto e trarre le vostre conclusioni.
(fotografie di Giovanni Menestò)