“Perugia a luci rosse. Dal Medioevo alla legge Merlin”, questo il titolo del nuovo libro del professor Sandro Allegrini, edito da Morlacchi, nelle librerie dallo scorso 8 agosto. Nel volume Allegrini non solo ci rimanda con sensibilità alla figura della “donna di piacere” (donna, appunto, e non solo “prostituta”) ma, più ampiamente, ci dimostra l’importanza della sessualità nella storia economica della comunità perugina.

di Francesca Cecchini

“L’è saputo che Allegrini sta a fa n libbro sui casini? Se sarà documentato lu, al casino… n c’è mai stato” (Walter Plini).

“Perugia a luci rosse. Dal Medioevo alla legge Merlin”, questo il titolo del nuovo libro del professor Sandro Allegrini, edito da Morlacchi, nelle librerie dallo scorso 8 agosto. Nel volume, con note e commenti del procuratore generale Fausto Cardella, del medievista Fausto Mezzanotte, del sociologo Roberto Segatori e del procuratore Sergio Sottani, Allegrini non solo ci rimanda con sensibilità alla figura della “donna di piacere” (donna, appunto, e non solo “prostituta”) ma, più ampiamente, ci dimostra, come specifica anche Segatori, l’importanza della sessualità nella storia economica della comunità perugina. Tutto accompagnato da una serie di aneddoti, immagini e poesie che rendono il libro ancor più piacevole da leggere e fanno da sfondo alla vita che si svolgeva, ai tempi antichi, nelle stesse strade in cui tutti i giorni oggi ci ritroviamo a passeggiare senza però conoscerne la storia e l’origine.

“Parto dagli statuti del Comune di Perugia – ci spiega il professor Allegrini – che prevedevano che ogni tenutario di queste case, nel quartiere di Malacucina (dove, oltre soddisfare le esigenze sessuali, si poteva anche mangiare e sostare), in corrispondenza dell’attuale ingresso del Caffè di Perugia, pagasse la “gabella postriboli”, una tassa che poteva coprire per due, tre, quattro anni il contratto di esercizio. L’insieme di queste case si estendeva fino a via Fani (palazzo delle Poste). Le donne che vi risiedevano, secondo gli statuti, erano obbligate a risiedere lì e, nella seconda metà del Duecento, venivano chiamate “lavatrici de capeta” (parrucchiere) e putane (con una t, come di usa anche oggi)”.

E “putana” è l’unico termine licenzioso presente nel libro perché Allegrini ha ricostruito con estremo rispetto e accortezza la figura della prostituta, ribattezzando persino con pseudonimi le figure delle “signore” storiche e note del capoluogo umbro. Le prostitute lavoravano solo all’interno delle case chiuse?

No, c’erano anche le “mantenute”. Era una categoria diversa. Queste donne avevano un protettore, un signore spesso sposato, una persona danarosa o più di una, che si dividevano i suoi favori.

Come mai la scelta di questo argomento “A luci rosse”?

Era un segmento di storia locale mai affrontato. L’unico volume che c’è risale all’Ottocento ed è di Ariodante Fabretti, “La storia della prostituzione perugina nei secoli XIV e XV”, che, però, non è una storia ma una raccolta di documenti sviluppata con un filo logico, tratta da atti ufficiali. Io ho utilizzato questi atti e altri ne ho trovati, come ad esempio alcuni contratti tra lenoni (ruffiani) e prostitute.

Contratti scritti?

Si, contratti scritti, atti notarili in cui la donna si impegnava a cedere il proprio corpo per un biennio o un triennio e in cambio aveva, più che denaro, mantenimento, abiti e sevizi. Il datore di lavoro e i clienti potevano anche picchiarla ma senza spargimento di sangue e rottura degli arti. Quando accadeva, questi “gentiluomini” pagavano per compensare il silenzio perché era un vero e proprio reato.

C’era un contratto “standard” o l’accordo variava a seconda delle donne?

Il valore era parametrato sulla bellezza della donna e sull’età. Poi ci sono altri contratti legati alle prostitute che i lenoni stranieri portavano a Perugia dall’Allemagna, dalle Fiandre in particolare. Momento in cui è la zona di via Alessi a divenire centro della prostituzione.

Com’era regolata l’apertura di queste case rispetto ai rioni cittadini?

La legge prevedeva che dovevano essere a dieci “case” di distanza dalle chiese. Non mi tornavano i conti e mi sono chiesto come fosse possibile rispetto, ad esempio, al Caffè di Perugia… ancora il Gesù non c’era ma c’era Santo Isidoro (all’ex Standa), poi c’era la Cattedrale. Mi sembrava strano che gli statuti venissero violati. Poi, grazie a Franco Mezzanotte, ho capito che ciò che veniva considerata “casa” era in realtà la casa-torre (perché si sviluppava in verticale) la cui lunghezza era convenzionalmente stabilita in otto metri quindi dieci case corrispondevano ad ottanta metri. E allora la distanza c’era.

Proseguendo nel tempo…

Nel 1492 le case vengono spostate in via delle Stalle (tra il Gesù e via Bontempi), così chiamata perché c’erano delle stalle, oggi chiamata via Volte della Pace. Da lì, che era ancora troppo centrale, ancora troppo sotto gli occhi di tutti, vengono decentrate nel distretto di via della Viola e strade adiacenti. E questa è una mia scoperta. Quella diventa la zona dei “lupanari”. Anche la toponomastica ci aiuta: lì c’è via dei Cartolari che una volta si chiamava via della Berta. La “berta”, oltre che la linguaccia, era una scollatura molto ampia da cui si vedeva il seno. In zona ci sono una serie di nomi delle vie che lasciano intendere tutto. Infine la zona centrale delle case diventa via del Prospetto (traversa di via della Viola). Lì c’erano l’Italia e la Moroni. Pensa che gli studenti fascisti quando si incontravano usavano salutarsi con l’espressione “Viva l’Italia!” e l’interlocutore usava rispondere con la battuta “La Moroni era chiusa”. Oltre queste due case popolari, con sconti per militari, ce n’era una terza, sotto palazzo Gallenga, in via Corrotta, che poi si spostò in via del Poeta (tra via Fabretti e via Santa Elisabetta) ma lavorava poco ed apriva generalmente nel fine settimana. Da qui il detto “C’ho più da fa de ‘na putana il sabato”. Il martedì e il sabato c’era il commercio del bestiame e delle granaie che veniva trattato in via Mazzini. I commercianti che arrivavano a Perugia facevano i loro affari, guadagnavano e poi andavano in questi luoghi a soddisfare i propri piaceri.

Tutte zone centrali… Anni fa abitavo in Corso Cavour e lì vivevano, accanto a via Gemella, due anziane signore che, si narrava, fossero due storiche “signore del piacere” della città. Anche Corso Cavour, dunque, è stata sede di “case”?

Scendendo dal centro, nella zona a sinistra di Corso Cavour, c’era un quartiere ebraico. Era un “locus minus scandalosus cristianis” dove gli ebrei erano praticamente confinati. Lì c’è via del Cortone. Si pensava che “cortone” fosse la corta, la scorciatoia, ma, in realtà, indicava “la piazza degli ebrei”. Già negli scritti del poeta latino Orazio troviamo ”curti iudei” (curti significa circoncisi) quindi è la “via dei curti”. In quella zona c’è sempre stata la prostituzione attiva.

Erano molti i bambini che venivano abbandonati dalle prostitute negli ospedali? Se non erro, nel Medioevo, l’ospedale si estendeva da piazza Matteotti a via Oberdan…

In realtà le prostitute erano madri sollecite ed affettuose e non avevano l’abitudine di abbandonare i propri figli. Li mandavano in collegio e pagavano la retta. Via Oberdan si chiamava via dello Spedale ma lì non esisteva un ospedale come lo intendiamo noi, non prestava cure ai feriti o ai malati gravi che venivano portati, invece, all’ospedale di San Crispino, a Fontenovo. Quello di via Oberdan era riservato principalmente all’assistenza agli orfani. Fondamentalmente l’azione si esplicava nel salvare la vita ai bambini abbandonati, chiamati “bisci” (dal colore della divisa che indossavano), che, altrimenti, sarebbero morti. Annesso c’era anche un seminario per coloro che volevano avvicinarsi alla vita religiosa.

Come nasce allora l’espressione “figlio di mignotta” se non per indicare il bambino abbandonato dalla prostituta?

“Figlio di mignotta” viene da fiulius/a mater ignote. Ad un certo punto “mater” viene abbreviato con “m.” divenendo fiulius m.ignote. Così, leggendolo, nacque questa espressione.

Nel libro cita alcune persone che non consapevolmente hanno contribuito alla stesura del libro…

Nel libro sono presenti storie che mi sono state raccontate, ricordi di anni e anni, quando ancora non avevo in mente di scriverne.

Tra i “consapevoli” c’è Costanza Bondi. Mi incuriosisce come la CapitanA delle Women@Work possa aver contribuito…

Costanza Bondi ha scritto un pezzo che ho inserito, con il suo permesso, nel libro, in occasione dell’incontro organizzato con l’Accademia del Dònca sulle prostitute a Perugia. Protagonista è un cane. Il cane di una prostituta che aveva una mini e lavorava davanti al centro di infanzia Montessori di Via XIV Settembre. Naturalmente la Bondi era una bambina all’epoca e i fatti le vennero raccontati dal padre Nazareno.

Nel libro alcune poesie sono in dialetto perugino, seguite da una traduzione in italiano. Un filone che le appartiene…

Quando scrivo di “peruginità” individuo dei terreni “non toccati”. L’idea iniziale era una trilogia che poi è diventata una tetralogia – ci dice sorridendo -. Il primo era Stradario (in) perugino (Aguaplano) con i nomi antichi delle strade e la loro origine. Ti faccio un esempio: via del Bulagaio. Si pensava erroneamente che il nome venisse dal fatto che lì albergassero le prostitute portate dalle truppe d’Oltralpe e, dunque, da “Boulevard gai” (strada del piacere). Nei libri medievali, invece, è già presente questa via. Era un “butto”. Nel dirupo sotto via della Pergola venivano gettate delle macerie. Il secondo era il Breviario Laico… e lascia sta i Santi (Aguaplano), un breviario dalla preghiera alla bestemmia in cui ho dimostrato come a Perugia ci sia una doppia specificità: non si bestemmiano i Santi protettori e la bestemmia è, in qualche modo, una forma paradossale di preghiera. La terza era il Griferòtikon. Parole e fatti d’amore a Perugia e dintorni (Morlacchi) ovvero le parole dell’amore e della sessualità in lingua perugina. Ora c’è questo sulle prostitute e la prostituzione esercitata in modo vario.

Per concludere, posso chiederle un parere sulla chiusura dei “casini”?

Dal punto di vista personale, civile, morale e religioso ritengo che lo sfruttamento della donna sia completamente inaccettabile in qualunque forma si manifesti. Vero è che l’esperienza ha dimostrato che questa pseudo cancellazione della prostituzione in realtà non ha avuto frutti, è diventato un caos. Cardella nella nota del libro scrive: “Reprimere questo reato è impossibile, è inutile”. È un fenomeno inestinguibile.