Fatti realmente accaduti, seppur a volte ai limiti dell’assurdo, personaggi reali e storie di vita quotidiana nel libro del giornalista Umberto Maiorca che con ironia ci descrive una “tranquilla” mattinata passata fra le aule del tribunale di Perugia

di Francesca Cecchini 

Quarantuno racconti per Pillole dal tribunale, libro edito da Futura Edizione, uscito in libreria proprio questi giorni. Una serie di episodi tra ironia e lucidità raccontati dal giornalista Umberto Maiorca, catapultano il lettore tra le aule del tribunale di Perugia. Veloci highlights con hashtag, nati con l’avvento dei social network, e brevi racconti si alternano e portano ad una riflessione più ampia sulla realtà della vita quotidiana. Con grande attenzione all’aspetto umano dei protagonisti, indipendentemente dai fatti accaduti, l’autore ci racconta alcune delle storie ascoltate durante il suo lavoro di cronista per Il Messaggero e per il Giornale dell’Umbria “Per cui seguivo la cronaca giudiziaria sia penale che, a volte , civile. Nel libro troverete anche storie che riguardano, ad esempio, separazioni, contenziosi di animali e via dicendo”. Fra le pagine, una serie di meccanismi si incrociano con la stessa precisione con cui dovrebbe agire la giustizia perché non compiere errori è fondamentale: “Una volta che l’errore si è generato – leggiamo infatti nella ‘Dichiarazione preliminare’ di Maiorca – non c’è modo di tornare indietro o di fermare la macchina giustizia, di riflettere, e poi di cambiare direzione: o si arriva alla sentenza oppure niente”.

Storie buffe o dai toni drammatici?

Tendenzialmente ho cercato di raccogliere in questi quarantuno racconti quelli più simpatici, che meglio si prestavano ad un taglio ironico e ad essere raccontati. Sono tutti nati da articoli di giornale con la fredda cronaca, sui quali poi ho lavorato. Fatti realmente accaduti leggermente romanzati per nascondere un po’ i protagonisti. Non ho nominato gli avvocati anche se alcuni di loro sicuramente si riconosceranno.

Un episodio che l’ha colpita particolarmente in positivo?

Uno degli episodi che più mi ha colpito e divertito è stato durante un procedimento penale per il furto in un’attività commerciale che vendeva lingerie. La proprietaria era una donna, il giudice era una donna, l’avvocato difensore era una donna, l’avvocato di parte civile era una donna, la testimone era una donna. Terminata la testimonianza una delle parti interessate chiese quale fosse il negozio e ne nacque una discussione al femminile sull’abbigliamento intimo. Un episodio simpatico.

E in negativo?

In negativo ci sono molti episodi che riguardano la lentezza burocratica e credo si evinca anche da alcuni racconti. Le persone che amministrano la giustizia, che siano i pm o il magistrato, quando si siedono sul loro banco, con la loro toga, perdono spesso il senso dell’umanità. Tutto diventa materiale per un fascicolo e non si considera che lì c’è una persona accusata di aver fatto qualcosa. Mi ricordo di un procedimento che seguii. C’era stato un incidente stradale e sotto processo misero colui che aveva parcheggiato male l’automobile sulle strisce pedonali. Aveva commesso un’infrazione, vero, ma misero sotto processo lui invece che la persona che aveva investito una signora. Un altro episodio, questo più simpatico ma che può apparire ridicolo, è quello di un nonno sotto processo per abuso edilizio. L’uomo in questione andava a lavorare la terra nell’orticello dei pensionati a Prepo e spesso portava con sé le nipotine. Per non farle annoiare aveva acquistato una casetta gioco di plastica per esterni. Se una qualunque costruzione rimane nello stesso punto per più di un anno per la legge è abuso edilizio. Cinque anni di processo per una casetta di plastica.

Perdita di umanità ma anche sfiorare nell’assurdo ci sembra…

Si parla di depenalizzazione dei reati ma la questione è che non si dovrebbe neanche arrivare a tanto. Meglio fare una bella multa altrimenti è, appunto, una perdita di umanità. Quando scrivevo i titoli di giudiziaria ho sempre tenuto a mente che si trattava di persone, che fossero vittime o che fosse il peggiore dei criminali.

A chi è rivolto il libro?

È rivolto ad un vasto pubblico. Agli avvocati che forse si ritroveranno, non solo i protagonisti dei casi, ma, in generale, tutti coloro cui siano capitati casi del genere, a qualche collega interessato alla giudiziaria e poi anche a tutti i lettori che vogliono leggere qualcosa di diverso.

Quanto ha impiegato per la stesura del libro?

La stesura del libro, come aspetto tecnico di rifinitura è stata abbastanza veloce, tra marzo e giugno, perché i racconti erano stati stesi nell’arco di quasi dieci anni. Mi sono dovuto dedicare solamente alla rilettura, correzione e riscrittura di piccole parti. Tra febbraio e giugno ho aggiunto quattro racconti che erano rimasti in bozza e che m’interessava pubblicare.

Il libro, oltre che alla sua famiglia, è dedicato ai colleghi del “fu Giornale dell’Umbria”.

La dedica ai colleghi del “fu Giornale dell’Umbria” è un ringraziamento dovuto a delle persone che hanno vissuto in tempo reale la nascita dell’hashtag #pilloledaltribunale e riso con me in redazione di quanto riportavo ogni giorno dal tribunale. Si può dire che hanno visto crescere e diventare adulto questo libro.

L’amarezza per la chiusura del Giornale dell’Umbria?

La chiusura del Giornale dell’Umbria è stata devastante perché ha messo per strada famiglie e persone e il modo con il quale è stata chiusa la testata lascia molta amarezza. Avendo fatto parte del Comitato di redazione del Giornale dell’Umbria ho vissuto, e vivo ancora, i passaggi che hanno portato alla chiusura e sono convinto che si sia trattato di una squallida operazione a tavolino che ha portato a chiudere il giornale senza pagare un centesimo di quanto dovuto per legge ai dipendenti. Sulla vendita e sui cinque mesi di agonia della testata c’è un’inchiesta penale aperta, un procedimento fallimentare in corso e un giudizio di lavoro per quanto attiene ai licenziamenti. Dopo l’amarezza rimane la speranza che si riesca a far luce e giustizia sulla chiusura di una testata che aveva appena 500mila euro di deficit. Si sarebbero potute tentare altre strade. La vecchia proprietà avrebbe potuto scegliere la via della cassa integrazione e dopo due anni chiudere e licenziare. In quel lasso di tempo si sarebbe potuto far vivo qualcuno interessato alla testata. È stata scelta la strada, apparentemente, più semplice. Forse sarà materia di un altro mio libro.