La scoperta dei primi impulsi sessuali e lo scontro con i genitori per affermare la propria identità al centro di “Peter Pan guarda sotto le gonne”, in scena al teatro Morlacchi di Perugia dall’8 al 12 aprile. Alla regista Liv Ferracchiati abbiamo chiesto di accompagnarci per mano lungo il sentiero che attraversa i Giardini di Kensington e di parlarci di Peter, Wendy e Tinker Bell

di Francesca Cecchini

Sarà “Peter Pan guarda sotto le gonne”, primo capitolo della Trilogia sull’identità di Liv Ferracchiati ad aprire “Smanie di primavera”, rassegna di spettacoli in scena al Ridotto del teatro Morlacchi di Perugia dal prossimo 8 aprile al 20 maggio. Un cartellone a cura del Teatro Stabile dell’Umbria. In scena sul palco del fu teatro del Verzaro, la pièce rimanda al pubblico l’infanzia di un undicenne degli anni Novanta nato in un corpo femminile, osservando come il transgenderismo possa assumere le sembianze della spontaneità e persino della tenerezza. Il centro tematico del lavoro, leggiamo nelle note di regia, è la scoperta dei primi impulsi sessuali e lo scontro con i genitori per affermare la propria identità. Con questo spettacolo viene posta con forza la domanda su cosa significhi affrontare una transizione, anche solo mentale, dal femminile al maschile, in un contesto dove ogni certezza è destinata a dissolversi. Parola e danza sono i linguaggi scelti per il racconto: la drammaturgia testuale disegna un parlato semplice e realistico, tipico dei preadolescenti, attraverso il quale si ricerca leggerezza, mentre la danza tratteggia zone di senso diversamente inesprimibili. A parlarci di questo primo capitolo è proprio Liv Ferracchiati che, oltre ad esserne la regista, ne cura la drammaturgia con Greta Cappelletti.

Perché la scelta è ricaduta proprio su James Matthew Barrie?

“Ero a vedere il ‘Peter Pan’ di Bob Wilson e, proprio in quel periodo, stavo affrontando la questione: transgenderismo nell’infanzia. Avevo scoperto dei documentari su Youtube in cui si raccontava la storia di alcuni bambini, tra i tre e i cinque anni, che, molto semplicemente, avevano chiesto di vivere nel genere opposto a quello che gli era stato assegnato alla nascita, senza troppe costruzioni e preconcetti. Solo perché si sentivano a loro agio. All’inizio dello spettacolo di Wilson c’era una gigantesca ombra del Peter Pan e fissandola distrattamente pensavo alle connessioni tra la sua figura e i bambini transgender. La crescita, quindi lo sviluppo, è vista come qualcosa da temere. Approfondendo, ho scoperto che il parallelismo si rafforzava rispetto al meno noto dei romanzi di Barrie, ‘Peter Pan nei giardini Kensington’ in cui c’è un personaggio che conoscono in pochi, il Corvo Salomone, che definisce Peter ‘un mezzo e mezzo’, metà uccello, metà uomo. Per me questo essere diviso a metà è diventato un fatto di dicotomia tra corpo e mente. È stata l’intuizione iniziale che ho poi sviluppato insieme all’altra co-autrice del testo, Greta Cappelletti”.

Gli anni Novanta, un momento storico che ha visto alternarsi (e contrapporsi) paradossalmente la musica di Britney Spears a quella dei Nirvana, i ragazzi con la kefiah ai modaioli con il Barbour dal colletto alzato, “Pretty Woman” a “Pulp Fiction” e via discorrendo. Perché Liv Ferracchiati decide di collocare in quel contesto sociale e culturale il suo Peter Pan?

“Tanto più utilizzando come unica musica di scena ‘The great gig in the sky’, che è del 1973.  Gli anni Novanta perché sono quelli che ho vissuto io, sono stati la mia infanzia, conosco bene quel periodo, anche se Peter forse ha qualche anno in più di me. Ho intervistato e conosciuto molti ragazzi transgender miei coetanei e mi sembrava centrale raccontare quel periodo, quando non era così facile accedere ad internet, dove non bastava scrivere una parola chiave su Google per capire chi si era o almeno iniziare a capirlo. Quando incontrare qualcuno che avesse il tuo stesso percorso di vita era molto più difficile. Insomma gli anni Novanta perché tutti erano meno connessi. Peter Pan guarda sotto le gonne parla del non saper dare nome alle cose. Il protagonista dello spettacolo non sa nominare quanto gli accade e ne ha paura. Qui sta la bravura di Alice Raffaelli – interprete di Peter – nel riuscire a raccontare al di là delle parole questa paura”.

Nel libro “Peter Pan nei Giardini di Kensington”, dicevamo prima, troviamo quello che Salomone definisce un “mezzo-mezzo”.Il suo Peter è in un limbo in cui la metà femminile e quella maschile si incontrano/scontrano oppure il punto cardine sta a metà tra i disagi paralleli che probabilmente il ragazzo vive? Quello psicologico, più intimo, e quello che inevitabilmente lo porta a rapportarsi con una società impreparata ad accoglierlo?

“Gli adulti impongono parole ai bambini. Parole, cioè nomi, che sono sintesi stratificate di concetti omologati. Nomi che, attraverso il processo di astrazione, hanno definito nei secoli le funzioni delle cose e delle persone. Il nostro Peter Pan non conosce nomi per quello che intimamente percepisce di sé. Questa è la principale ragione del suo smarrimento. La paura nasce soprattutto dal non saper narrare, anche a se stesso, quello che accade. Wendy, interpreta con delicatezza da Linda Caridi, è una ragazzina di tredici anni, dotata di femminilità sfrontata che farà innamorare Peter e sarà per lui un acceleratore di consapevolezza”.

Non semplice affrontare l’argomento sensibile e complesso della dicotomia tra corpo e mente in fatto di identità di genere. Le è mai capitato che il tema del suo spettacolo, o lo stesso spettacolo, venisse strumentalizzato da pubblico e critica?  

“Questa è una domanda retorica, ma giusta. È capitato. Un’intervista che per inesperienza e, forse, malafede da parte di chi la conduceva, è diventata una sorta di folkloristica esposizione mediatica del tema, anziché un approfondimento teatrale. Usare le parole giuste è fondamentale, sceglierle bene l’unico modo per tentare una comunicazione reale. Il problema è bifronte: c’è poca informazione su questi temi, perché molti pensano di non esserne toccati, poi c’è la tentazione da parte di alcuni giornalisti di essere accattivanti anziché onesti. Per fortuna per la maggior parte ho incontrato giornalisti sensibili e intelligenti, con cui era possibile avere uno scambio.  La critica, a volte, confonde totalmente il fatto teatrale con il tema e questo è un peccato, ma anche qui non voglio generalizzare. Ci sono stati commenti molto acuti nel bene e nel male. Certo, il rischio del fraintendimento rimane. È lecito che lo spettatore o il critico non conosca l’argomento. Un esempio per tutti, anche se non riguarda direttamente ‘Peter Pan guarda sotto le gonne’, e uno dei primi cori di ‘Un eschimese in Amazzonia’ che recita così:

“Allora, te la sei scopata?

Te la sei scopata?

Oh, te la sei scopata o no?”

I meno accorti possono percepire soltanto le parole comunemente volgari, ma a ben guardare questo è l’iter che spetta a chi approccia al genere maschile nella nostra società. Il machismo tragicomico a cui si è sottoposti può influenzare il modo di costruire la propria identità di uomo, transgender e non.  Si può ridere o rimanere inorriditi da questa riproposizione della realtà, ma non si può ignorare che il tentativo di scrollarsi di dosso tutto questo e di trovare il proprio posto è un atto poetico, persino più della danza del nostro Peter Pan”.

Tre attori in scena. Anche Tinker Bell salirà con Peter sul palco? 

“Tinker Bell spinge ruvidamente Peter verso la sua intima natura e, al contempo, si propone al pubblico come tramite approssimativo, per accompagnarlo nella scoperta di quello che si nasconde dentro l’apparenza della ragazzina che gioca a pallone e, forse, anche di tante altre persone tra noi. Nel rapporto con il pubblico c’è anche una “preveggenza” di quanto sarà fatto nel terzo capitolo ‘Un eschimese in Amazzonia’. Chiara Leoncini, la fata, ha la difficoltà di gestire il qui e ora, la reazione inaspettata dello spettatore. Deve lavorare anche in improvvisazione”.

Come si insinuerà la danza nella scena? Un quadro che interrompe la drammaturgia o ne è parte integrante? 

“La danza, anche e soprattutto grazie al lavoro fatto dalla coreografa Laura Dondi insieme ai due danzatori, Alice Raffaelli e Luciano Ariel Lanza, è parte integrante della scena. Parola e danza sono i linguaggi scelti per il racconto: la drammaturgia testuale disegna un parlato semplice e realistico, tipico dei preadolescenti, attraverso il quale si ricerca leggerezza, mentre la danza tratteggia zone di senso diversamente inesprimibili, zone meno rassicuranti”.

A chiudere la rassegna sarà il secondo capitolo della sua trilogia, “Stabat Mater” (15-20 maggio).Un approfondimento del primo progetto o una nuova ricerca? 

“Una nuova ricerca. Il tema centrale è l’emancipazione dalla madre, la difficoltà di diventare adulti. Viene raccontata la vicenda di un trentenne, scrittore, un uomo di cui si possono notare gli aspetti più ordinari nonostante egli stia vivendo una situazione, ad oggi considerata straordinaria, quella di vivere al maschile con un corpo femminile.  Al centro c’è sempre la parola, qui intesa come strumento di ricostruzione identitaria, l’arma che può modificare negli altri la percezione che essi hanno di noi. Infine, ‘Stabat Mater’, è una commedia, per sfatare che di certi argomenti si possa parlare solo soffrendo”.

Peter Pan guarda sotto le gonne – ideazione e regia Liv Ferracchiati, drammaturgiaGreta Cappelletti e Livia Ferracchiati, con Linda Caridi, Luciano Ariel Lanza, Chiara Leoncini, Alice Raffaelli e con le voci di Ferdinando Bruni e Mariangela Granelli, aiuto regia, coreografie e costumi Laura Dondi, scene Lucia Menegazzo, luci Giacomo Marettelli Priorelli, produzione The Baby Walk, Teatro Stabile dell’Umbria con il sostegno di Campo Teatrale e Caos Centro Arti Opificio SIRI.