di Francesca Cecchini

Tra musica e immagini, la tradizione “usata” per sperimentare qualcosa di nuovo. Al Postmodernissimo arriva il progetto di Caterina Barbieri e Giovanni Brunetto

Stasera, 11 gennaio, alle ore 21.30, il Postmodernissimo di Perugia aprirà le sue porte ad una performance fuori dal comune che vedrà salire sul palco dello storico locale perugino due artisti, Caterina Barbieri e Giovanni Brunetto, in un percorso parallelo di video e suoni dal titolo UHV. Vuoto Estremamente Alto. Nel campo della fisica “vuoto” indica l’assenza di materia in un volume di spazio. Se a questo accostiamo l’idea di un proponimento all’avanguardia che unisce immagini, suoni e apparecchiature d’epoca riutilizzate in chiave moderna, la curiosità di capire come questo vuoto possa (forse) essere riempito viene spontanea. Ragion per cui il PostMod ha accolto anche noi questa mattina e ci ha fatto incontrare gli autori di UHV.

Immagini e suoni basati sul concetto di vuoto fisico e psicoanalitico. Sul palco avremo dunque una sorta di monologo (visivo e sonoro) personale?

“In effetti si – è Brunetto il primo a prendere la parola -. Molte delle descrizioni che creo con le immagini sono ispirate alle mie esperienze personali e a visioni interiori come quella del vuoto fisico estremamente alto. Estremamente alto è, tra l’altro, la massima “misura” di vuoto concepita nei laboratori scientifici odierni, dove si tenta di ricreare un vuoto cosmico. Un concetto che, personalmente, ho sempre paragonato anche ad una sorta di “vuoto interiore” in quello che può essere il “macrocosmo personale di una persona”. In questo caso anche nel mio”.

Come nasce la ricerca?

“Ho iniziato ad allestire questo lavoro di immagini senza una colonna sonora e non avevo idea di chi avrebbe potuto affiancarmi musicalmente. Avevo bisogno di trovare una persona con cui avere una certa affinità. L’immaginario di riferimento era abbastanza definito ed era basato su tecnologie d’altri tempi, anni Settanta. La ricerca nasce infatti inizialmente dal mio studio sugli artisti di quest’epoca che lavoravano molto con i video e i sintetizzatori. Poi è arrivato l’incontro casuale con Caterina”.

La musica di Caterina si associa al percorso o viene creata appositamente per il progetto?

“La mia musica non si associa al progetto – interviene la Barbieri -. La mia non  è una sonorizzazione delle immagini o una colonna sonora scritta per il lavoro visivo di Giovanni. La nostra è più una collaborazione dettata dalla nostra affinità: attitudine al lavoro, scelta minimalista dei materiali, modo di rielaborarli dal vivo. Lui parte spesso, ad esempio, da immagini molto geometriche, stilizzate e le rielabora sul palco. Io, allo stesso modo, a livello musicale, parto da alcune melodie con pochi elementi e le sviluppo dal vivo. I nostri sono lavori che viaggiano, appunto, di pari passo e che, ovviamente, si amalgamano nel progetto. Le performance non sono mai le stesse, cambiano sempre”.

Ogni singolo evento è unico e non replicabile. Seppur la performance è basata su uno studio meticoloso, quanto conta l’improvvisazione?

“C’è un margine di improvvisazione che però varia, di volta in volta, a seconda delle macchine utilizzate. Suoniamo dal vivo ma c’è del materiale pre-esistente. Nel mio caso il materiale di base sono le melodie che scrivo prima e nel caso di Giovanni sono le diapositive di partenza basate su suoi disegni. E’ la rielaborazione dal vivo che rende tutto molto notevole”.

Nelle note ci ha colpito l’espressione “uso romantico delle macchine e delle tecnologie”. L’uomo diventa “padrone” della tecnologia ma sente il bisogno di mettere il suo “cuore pulsante” in una macchina che cuore, ovviamente, non possiede?

“Prova a ribaltare il concetto”. (Ci risponde sorridendo la Barbieri)

La tecnologia che strumentalizza il cuore?

“Non proprio. Si pensa che l’uomo sia in qualche modo padrone delle tecnologie e che queste siano, di conseguenza, al servizio della sua immaginazione. Io credo che questo sia un concetto molto illusorio. In realtà la macchina pone sempre dei limiti. Questi, però, possono diventare fertili orizzonti. Personalmente non vivo il limite come un ostacolo ma come uno stimolo. Perciò per me il processo creativo è sempre un feedback tra le mie idee e quelle della macchina. Tutte e due abbiamo un design che esprime un modo di pensare e questa interazione fa nascere idee, nuovi progetti. In questo senso nasce un “uso romantico”, una “relazione sentimentale” tra uomo e macchina”.

C’è un colore definito che associate al concetto di “vuoto” oppure sfumature cromatiche di contorno impediscono di definirlo?

“Sembrerà scontato – è Brunetto a parlare – ma è il nero il colore definito del “vuoto”. E’ questo che si associa generalmente al buio, all’Universo. All’interno di questo nero, poi, ci sono molti altri colori che rappresentano espressione del pensiero e fantasie che fuoriescono. Anche nel mio lavoro le immagini hanno uno sfondo nero. Si perdono un po’ nel vuoto come se fossero sospese all’interno del colore di base che le raccoglie, le accoglie e le lascia fluttuare. Ma questo non vuol dare un’impressione negativa. Tutt’altro. Vuol essere una visione positiva. Dal nero si parte per sviluppare la cromaticità”.

La ricerca è sempre innovazione, andare avanti ed oltre. Ma per crescere bisogna avere una base da cui partire che è rappresentata dalla tradizione. UHV è un salto verso l’innovazione o un aggrapparsi alla tradizione?  

“La tradizione è importante ma noi “pendiamo” più per l’innovazione – spiega la musicista -. Partiamo anche da strumenti che possiamo definire tradizionali, appartenenti al passato, ma la parte interessante è proprio il modo di utilizzare tecnologie “obsolete” in un contesto decisamente moderno. Non un uso retrò ma, a volte, nuovo rispetto a quello per cui erano state progettate”.

Un esempio dell’uso innovativo di uno strumento obsoleto? 

“Il macchinario più obsoleto del mio lavoro è il proiettore che la maggior parte dei giovani – ci spiega il freelance -, probabilmente non ha mai visto o usato. L’uso innovativo viene dal proiettare non diapositive del suo tempo di appartenenza ma immagini digitali da me disegnate al computer e riportate, con grande difficoltà, in diapositive”.